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In precario equilibrio

// Tilia //
Tra lavoro e famiglia
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Se dovessi pensare al significato della parola ‘equilibrista’, sicuramente mi porterebbe a pensare a me come madre (di tre figli) e alle madri di questo Paese. Siamo, infatti, in tante che ogni giorno proviamo a eseguire esercizi di equilibrio o a destreggiarci nelle pratiche sociali. Ormai da qualche tempo, mi sono resa conto che il nostro ‘ Non è un Paese per madri’. È quello che emerge non certo solo dalla mia esperienza personale ma da molti rapporti, per esempio come quello di Save the Children sulla maternità in Italia pubblicato a maggio 2024, dove la situazione di chi decide di avere un figlio e di proseguire il lavoro non migliora le proprie condizioni, anzi obbliga e trasforma la madre in una vera eroina. Potrebbero anche bastare il titolo, Le equilibriste, appunto, e i nomi di alcuni capitoli come “Lo svantaggio delle mamme”, “Divento mamma, quindi mi dimetto”, “Chiediamo asilo!” per dare un’idea delle questioni brucianti sul tema trattate nel rapporto.

Conciliare la vita familiare con quella lavorativa per le mamme (e i papà) è molto spesso faticoso. Le donne sono, però, quelle che subiscono di più questo disequilibrio. Esempio classico che sarà capitato a molte mamme lavoratrici. Alla notizia della partenza per una trasferta di lavoro di tre giorni, succede questo: le nonne si sono profuse prima in manifestazioni di stupore e poi in offerte di aiuto. “Ma sei sicura? Ma devi proprio andare? Ah, ho capito…. Beh, se serve posso venire la mattina molto presto, così aiuto Marco. Posso fare la spesa, far trovare la cena pronta… Posso fare io il bagno a Nina, così Marco quando torna a casa non deve fare nulla. Posso portare io Filippo all’asilo, così Marco può stare tranquillo” – eccetera, eccetera. Ora, io dico: perché diamo per scontato che 362 giorni l’anno la mamma possa occuparsi da sola di Nina, Filippo/casa/ufficio, e che Marco non possa fare altrettanto per TRE giorni soli? Nella nostra società è diffusa l’idea che la madre sia in grado di fare tutto, l’uomo no. E pensare che le offerte di aiuto sono arrivate al “povero” Marco, ancora prima che abbia avuto modo di chiederlo davvero, un aiuto. Non solo la disparità nel carico di cura tra madri e padri, anche la difficoltà pratica di sopperire alle esigenze domestiche e lavorative contemporaneamente, le discriminazioni sul lavoro sono alcune delle ragioni che portano una madre a rinunciare al lavoro per riuscire a portare avanti il desiderio di avere una famiglia. La legislazione prevede alcuni strumenti per conciliare vita lavorativa e familiare (smartworking, gli assegni per i figli a carico, bonus asilo nido e così via), ma nonostante ciò c’è ancora molta strada da fare. Siamo ancora lontani da un modello virtuoso che renda la maternità una risorsa piuttosto che un impedimento. Serve un impegno collettivo delle istituzioni e di tutti i soggetti coinvolti per permettere alle mamme di vivere la gioia della maternità senza rinunciare alla propria vita professionale e sociale.

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Per me (non) decido io

// Cristina Pelagatti //
Outing, Gatekeeping e Sharenting: come le azioni di altre persone limitano la nostra libertà di scegliere.
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Le persone cresciute nella società occidentale sentono parlare, fin dall’infanzia, di concetti come la libertà di scelta, il libero arbitrio e il diritto all’autodeterminazione e danno per scontato di poter decidere chi essere, come venire rappresentate, come curarsi, come vivere e anche come morire. Non è così per tutti.

Sharenting: quando i genitori sovraespongono i figli senza il loro consenso
Per chi è nato ai tempi dei social media addirittura, il diritto di scegliere della propria identità spesso viene meno nel momento stesso in cui i genitori apprendono la lieta novella della loro prossima venuta al mondo e decidono, (loro sì, possono decidere), di comunicarla a migliaia di sconosciuti via social media con una bella immagine dell’ecografia. Così spesso si dà inizio all’esposizione della vita di un essere umano minore non consenziente attraverso video, audio, foto, documenti che termina nel momento in cui il neonato diventa in grado di intendere e di volere e dice ai genitori di smetterla. Il fenomeno si chiama sharenting, (da share condivisione e parenting genitorialità) e trasforma i genitori da angeli custodi dei propri figli a coloro che ne minano i diritti e li mettono in pericolo. “Si tratta di un fenomeno conosciuto da anni ma durante la pandemia, con i genitori chiusi in casa che hanno cominciato a condividere sui social media qualsiasi cosa per non annoiarsi o avere più visualizzazioni, ha assunto una dimensione preoccupante”, ha spiegato Gianluigi Bonanomi, giornalista e formatore sui temi della comunicazione digitale che ha scritto il libro “Sharenting. Genitori e rischi dell’esposizione dei figli online” per Mondadori Università. “L’esempio non virtuoso di alcuni influencer famosi che hanno sfruttato le immagini dei figli per aumentare la monetizzazione dei propri social media ha portato molti a seguire queste pratiche, non solo chi usa i social per lavoro e che quindi lo fa per motivi economici, ma anche chi agisce per motivi psicologici cioè persone che abbiano bisogno di attenzioni e ‘like’. La conseguenza immediata della sovraesposizione è il fatto che in questo modo il genitore contribuisce a costruire l’identità digitale del figlio. L’identità digitale è un punto molto importante dello sviluppo dell’identità dei nativi digitali, sulla quale così non hanno libertà decisionale. Non è solo l’imbarazzo dei figli una volta cresciuti la conseguenza dello sharenting: la sicurezza di una persona i cui genitori condividono dati, diagnosi mediche, luoghi dove va a fare sport, è compromessa. Il cyber bullismo è un’altra conseguenza da non sottovalutare: ci sono immagini che i genitori trovano buffe, un video del figlio neonato sul vasino o che fa peti, o che si fa la cacca addosso, che può diventare poi materiale con cui essere bullizzati. L’intelligenza artificiale sta introducendo nuovi scenari con la possibilità di modifiche a immagini, video e audio non più distinguibili dagli originali che sono materiale prezioso per i truffatori. È già successo e così come con la pedopornografia, con metà dei database dei pedofili forniti direttamente dai genitori che fanno circolare foto e video dei figli sui social, è il genitore a determinare il problema. Si rende necessaria una formazione sulla comunicazione digitale per famiglie e personale scolastico, specialmente su questione dell’IA, sulla quale sono completamente impreparati.” Per limitare i danni dello sharenting per Bonanomi serve “Il buon senso. No alle immagini di bagnetti o equivoche, si possono utilizzare strumenti per oscurare i volti e soprattutto mezzi più sofisticati, gratis o a pagamento, per cui le immagini che vengono condivise sono bloccate, possono solo essere visualizzate e non condivise. Questo finché non ci sarà una normativa adatta; in Italia ci sono alcune proposte sul tavolo ma sono solo proposte, il garante della privacy si è pronunciato ma le sue sono solo indicazioni, non è legislatura. Al momento ci troviamo in un far west in cui ogni genitore fa quello che vuole e non solo il genitore: adesso si parla di Grand-sharenting: i nonni con lo smartphone fuori controllo. La cosa che non è al momento preventivabile sono gli effetti a lungo termine dello sharenting. È possibile che un domani molti figli denunceranno i genitori per le conseguenza di questa sovra-esposizione non scelta.”

L'Outing non è un Coming Out.
La caratteristica dei fenomeni che impediscono alle persone di decidere come determinare le proprie scelte è la violenza; lampante il caso dell’Outing ovvero la pratica di rendere pubbliche informazioni personali di soggetti senza il loro consenso, tipicamente l’orientamento sessuale o l’identità di genere. Miriam Arianna Fiumefreddo presidente Centaurus Arcigay Alto Adige Sudtirol ha evidenziato “Se il coming out, cioè il momento in cui una persona decide di ‘uscire’ e dichiarare la propria identità di genere o orientamento sessuale, è un atto costruttivo della personale identità, l’outing è un atto violento, sottrattivo della capacità di dirsi, che non riguarda solo temi LGBTQIA+. L’outing è una pratica utilizzata per un certo periodo anche nell’ambito LGBTQIA+, si faceva outing, cioè si raccontava che alcuni politici o commentatori che in pubblico facevano scelte anti LGBTQIA+ o propugnavano misure proibizioniste in realtà fossero omosessuali, frequentassero ambienti LGBTQIA+, assumessero droghe e ancora è una cosa che si tende a fare. Ci sono alcuni outing obbligati a livello istituzionale. Accade ad esempio se si vuole esercitare il proprio diritto di voto che si debba obbligatoriamente sottoporsi ad outing e scegliere in che fila andare a votare: maschile o femminile, dividere un gruppo umano in una dimensione binaria, togliendo ai transgender i diritti è una pratica politica e istituzionale che incide sulla cittadinanza, sul diritto di voto.

Gatekeeping: un metodo subdolo di controllo sul corpo altrui.
All’Outing è strettamente connesso, proprio per l’elemento violento esterno che riduce l’autodeterminazione, il Gatekeeping. A subire il Gate-keeping, (cioè a non superare la soglia), sono i corpi. “Il gatekeeping”, ha chiarito Roberta Parigiani, avvocata e portavoce del Movimento identità Trans, “fa sì che si possa accedere a determinati strumenti soltanto attraversando cancelli le cui chiavi di accesso non le ha chi ha un corpo con cui vuole autodeterminarsi ma un elemento terzo. Ad esempio c’è un ‘guardiano del cancello’ che controlla l’accesso ai trattamenti medici per poter iniziare la terapia ormonale. C’è una piramide di potere medicale che esprime diagnosi che ti ammettono ad una procedura medica o te la negano; l’accesso alla transizione medica o come l’aborto sono alcuni dei diritti minati da soggetti terzi che hanno la chiave del cancello.” Dall’aborto alla procreazione medicalmente assistita dalle terapie ormonali al non accanimento terapeutico, si tratta della libertà di decidere sui corpi che non è consentita “e anche quando lo stato mette la firma e ti fa accedere tu non hai la libertà di passare dal cancello, è una semplice concessione, come se ti dicesse “io ti concedo di essere quello che sei. Ci dobbiamo quindi adeguare a meccanismi di gatekeeping che altro non sono che una forma di controllo sui corpi.” I social media, in contesti “che tolgono la parola” possono aiutare: “possono fare emergere complessità che non avevano eco mediatica, ovviamente si alzano anche le voci ostili e le strumentalizzazioni. È importante però riprendere la parola sui propri corpi, dare la versione corretta. Si tratta di un percorso lungo e difficile, rispetto a 10 anni fa la tutela dei diritti è peggiorata ma noi che subiamo questo deterioramento e non siamo in cima alla piramide del potere dobbiamo continuare a mostrare il problema. Si pensa che dare diritti a qualcuno ne tolga ad altri. Noi come movimento trans femminista non chiediamo mai diritti specifici, sarebbero privilegi, vogliamo amplificare diritti che ad altri sono già riconosciuti. La piramidalità dei diritti non è sostenibile nel tempo.”
Gianluigi Bonanomi
Miriam Arianna Fiumefreddo
Roberta Parigiani